I romanzi di Hiroko Oyamada, tra monotonia e mostri

da | 26 Gennaio 2024 | Articoli, letteratura

Sei al lavoro, annoiato dalla monotonia di un gesto inutile ripetuto mille volte, che è parte del lavoro inutile a cui ti sei presentato mille volte. Ti sembra di vedere una sagoma curva (una foglia? forse un’ala?) saettare nella periferia del tuo sguardo. Ti volti e seguendo il tuo istinto fissi la fine del corridoio buio. Nessuno sembra mai passare di lì ma un brusio di telefoni e fotocopiatrici esageratamente frenetico riempie il silenzio. Un animale, uno di cui non sai il nome, emerge con fatica contro allo sfondo buio. Se proprio dovessi descrivere quello che sta facendo diresti che è “appollaiato” sull’appendiabiti che ti è ormai anche troppo familiare. Che sia un uccello? Uno che non hai mai visto nei documentari e che ti sembra così strano da pensare che sei la prima ad averlo avvistato.

Ti alzi dal divano, per la prima volta dopo troppe ore. Il caldo ti ci ha incollato in un appiccicoso pomeriggio di noia. Decidi di fare una passeggiata lungo il fiume, sperando in un po’ di aria fresca. Cammini sulla sponda, i passi non ragionati, senza una meta a distrarti dal vagare del tuo sguardo. Un movimento quasi impercettibile nell’erba alta. Una cavalletta, il vento, una lucertola, una talpa… sembrano tutti colpevoli plausibili, ma per un motivo che non osi indagare la tua mente suggerisce alternative meno rassicuranti. Cosa serpeggia? Si avvicina? Dove nascondersi se… Un cappello giallo spunta, proiettato in un salto inaspettato. Bambini che giocano a nascondino. Il tuo cuore torna a battere normalmente. Benvenuti nel mondo dei romanzi di Hiroko Oyamada.

 

Hiroko Oyamada: da dove iniziare?

I romanzi di Hiroko Oyamada ci immergono in una routine piatta, che ci illude con un iniziale senso di sicurezza, per poi strapparci e lanciarsi verso mostri pronti a divorarci. O forse invece a guidarci? La sua prosa asciutta e l’esplorazione della società giapponese contemporanea hanno già catturato milioni di fan, rendendo i suoi romanzi un’aggiunta indispensabile per gli appassionati di letteratura giapponese.

Mentre aspettiamo che sia edita la traduzione italiana di Itachinaku いたちなく, già tradotto in inglese col titolo Weasels in the Attic) possiamo iniziare da uno dei due titoli già disponibili. In questo articolo vi racconto perché La fabbrica  (in originale Kōjō, 2013, edito in Italia da Neri Pozza nel 2021, traduzione di Gianluca Coci) e La buca (Ana, 2014, edito in Italia da Neri Pozza nel 2022, anch’esso per la traduzione di Gianluca Coci) sono rapidamente rientrati tra i miei libri preferiti.

La copertina italiana de "La buca", uno dei romanzi di Hiroko Oyamada, in cui una persona vestita di bianco è sdraiata a faccia in giù su un manto erboso.

Copertina italiana de La Buca di Hiroko Oyamada

Scrivere romanzi in fabbrica

Nata nel 1983 a Hiroshima, Hiroko Oyamada ha iniziato la sua carriera passando da un lavoro all’altro con poco entusiasmo, fino a trovare un posto a tempo determinato in una fabbrica di automobili. Mentre i suoi colleghi consideravano le proprie mansioni soddisfacenti, la monotonia delle sue azioni faceva pensare a Oyamada “Cosa sto facendo qui? E perché?”. Da quel momento ha iniziato a stendere, sul computer del lavoro, la prima bozza di quello che diventerà La fabbrica: un’esplorazione delle sue sensazioni riguardo all’immobilità e al senso di apatia esperiti sul luogo di lavoro.

Il romanzo segue tre impiegati in una fabbrica smisurata, occupati in mansioni misteriose o di dubbia utilità; ma è proprio dalla banalità apparente che emergono le verità più sconcertanti. Secondo Oyamada basta guardare le cose più banali a lungo perché inizino a sembrare bizzarre: è proprio quando il nostro sguardo è troppo fisso che i contorni si sfumano, proprio quando l’attenzione è al culmine che il significato ci sfugge. Ed è allora che la metamorfosi avviene, per qualcuno in un altro animale, per altri nella donna che non ci si è mai immaginati di diventare.

A prima vista pensai che quegli uccelli neri fossero corvi, e invece mi sbagliavo: assomigliavano piuttosto a cormorani. Se ne stavano fermi alla foce del fiume, sul lato opposto rispetto al mare e vicino al grande ponte su cui mi trovavo, tutti rivolti verso la fabbrica. Erano lucidi e bagnati al punto che sembravano brillare, tanto da far pensare che stringendo il loro collo sottile sarebbe venuta fuori una gran quantità d’inchiostro nero come la pece. (Da “La fabbrica”)

Paesaggi metafisici e buche su misura

Il secondo romanzo di Oyamada, La buca, ha diversi aspetti in comune con il primo. Anche qui incontriamo una protagonista persa, paralizzata nella sua routine. Asahi è sposata a un uomo che lavora e guadagna abbastanza per mantenere entrambi, così lei rimane ore sola nella nuova casa in campagna, vicino ai parenti del marito. Annoiata, esplora i dintorni e scopre strane presenze e una buca nel terreno che sembra essere fatta apposta per lei. Dalla buca Asahi sarà costretta a guardare il mondo da una nuova prospettiva e a chiedere l’aiuto del suo prossimo. Un’immagine familiare a i lettori di Il grido silenzioso (1967) di Kenzaburō Ōe, in cui il protagonista attanagliato dal senso di colpa e dal senso di inadeguatezza trova rifugio in una buca buia.

Un altro riferimento famoso che ci può sovvenire è a La donna di sabbia (1962) di Kōbō Abe: un’analoga depressione da cui non vi è fuga, ma che col tempo sembra accomodare il proprio prigioniero, colto da un’accogliente rassegnazione. Infine, per citare esempi più recenti, possiamo ricordare la buca/portale de L’assassinio del commendatore (2017) di Haruki Murakami. Ad accomunare questi romanzi e le loro ambientazioni non sono solo le buche, metafora di catene esistenziali e sociali, ma anche quello che le circonda e che le rende tali: mondi senza fine, troppo estesi e troppo vaghi per dare conforto e un senso di scopo ai personaggi. Dal complesso industriale esteso quanto una metropoli ne La fabbrica alla provincia fondamentalista e retrograda che spaventa il protagonista de Il grido silenzioso, fino al vicinato indifferente de La buca.

La copertina italiana de "La fabbrica", uno dei romanzi di Hiroko Oyamada, in cui del fumo esce da un cassonetto dei rifiuti su uno sfondo rosa

Copertina italiana de La Fabbrica di Hiroko Oyamada

I mostri senza nome di Hiroko Oyamada…

Mentre era impegnata in fabbrica, Oyamada procedeva in una scrittura fluida e istintiva, senza un piano prestabilito. Fino a che non si è trovata davanti a un muro creativo. La risoluzione di questa impasse le si è presentata sotto forma di un episodio reale accaduto durante l’orario di lavoro:

Alzai lo sguardo e vidi una donna accanto a una delle stampanti, che teneva per le ali un enorme uccello nero. Quando guardai meglio, non era affatto un uccello. Era un pezzo di stampante, forse una cartuccia di toner. Comunque fosse, l’immagine di quell’uccello nel seminterrato mi è rimasta impressa. In quel momento, ho trovato ciò che mi serviva per finire la novella. Poco tempo dopo, lasciai il lavoro in fabbrica.

Questi esseri diventeranno gli uccelli simili a cormorani che volano nei dintorni della fabbrica, presenze destabilizzanti ma anche rassicuranti. Un monito dritto dritto dalla natura, una contaminazione al contrario negli ingranaggi dell’industria.

 

…non vivono solo nei sogni

Una storia simile si collega alla scrittura de La buca: durante la stesura del romanzo Oyamada ha fatto un sogno in cui ha visto una specie di cane scavare una buca sulla riva di un fiume; lo stesso animale che troviamo interagire con Asahi. Un animale che non è davvero un cane, né un furetto o un procione, con orecchie tonde e pelliccia nera, con le costole in evidenza. Asahi lo segue fin nella buca, ammaliata dal suo  mistero.

In effetti, fin dalle alle prime stesure Oyamada ha popolato i suoi racconti di omuncoli, demoni e animali fantastici, che rompono la routine, forse più benvenuti che preoccupanti. Creature misteriose, portavoce del tuffo nell’ignoto che attende tutti i personaggi, enfatizzato particolarmente nelle copertine italiane. Eppure paradossalmente queste presenze sembrano più realistiche, più vivide dei mestieri vuoti in cui i personaggi sono vincolati e nel caso della fabbrica, una delle chiavi di volta della trama.

Nonostante gli enigmatici uccelli e l’animale peloso siano le creature più inusuali della prosa di Oyamada, i personaggi umani non mancano di originalità. Asahi interagisce con un cognato che non ha mai visto prima e un suocero bloccato in azioni senza senso. Esplorando i prati, pieni di buche e popolati da bambini festosi, non ci sembrerà mai una “sposina” (oyome, お嫁) ben inserita nella famiglia del marito. Proprio come i protagonisti de La fabbrica rimarranno intrappolati in un mondo non loro, intercambiabili nella loro confusione. Anche lo stile di scrittura ne rispecchia la vacuità: i punti di vista si alternano, ma il linguaggio di ognuno si somiglia a tal punto da renderli indistinguibili.

 

Cosa si nasconde tra i fili d’erba?

Se lo stile di Hiroko Oyamada è lineare, la ricchezza di significati e sensazioni che è in grado di sprigionare è tutt’altro che banale. Ho letto la traduzione inglese de La fabbrica durante il lockdown e la sensazione di immobilità sofferta dai protagonisti ha trovato terreno fertile nella mia mente annoiata. Per questo può darsi che anche la sorpresa della rivelazione di un mondo ulteriore, la magia che sfonda il quotidiano, mi abbia stregato con tanta efficacia. E forse è a causa della stessa mestizia che mi prendeva talvolta durante la pandemia che ho letto nel finale una poetica e serena rassegnazione all’inevitabile.

D’altronde le circostanze che vedono la metabolizzazione di un romanzo da parte di un lettore sono importanti quanto quelle che ne hanno permesso la nascita. Nel caso de La buca, l’autrice attribuisce la presenza di bambini in festa e le descrizioni di gioiosi incontri bucolici al suo stato d’animo durante la scrittura. Nel giro di due anni Oyamada ha perso il proprio padre e ha provato il calore fisico e metaforico di una gravidanza nell’umida estate nipponica. Il decesso del suo caro le è sembrata la naturale conclusione di un’esistenza da celebrare, non una tragedia da piangere. Allo stesso tempo, la prospettiva di diventare madre le ha comunicato un senso di inadeguatezza e la paura di essere persa in qualcosa di troppo grande.

Foto di Hiroko Oyamada presso il LiteratureXchange Festival Aarhus (Danimarca, 2023)

Foto di Hiroko Oyamada. Immagine originale di Hreinn Gudlaugsson

 

Hiroko Oyamada è una voce originale

Tuttavia, in nessuno dei suoi lavori Hiroko Oyamada cerca di inviarci un messaggio definitivo. Scrive paragrafo per paragrafo, lasciandosi trasportare da sensazioni e scene, dove le realtà possibili si moltiplicano, diventando tante quanti sono i lettori. Le scelte dei suoi  protagonisti non hanno una morale, non sono positive né negative, sono scelte, come quelle che chiunque deve fare.

Invece di usare esagerata vaghezza per incoraggiare l’immaginazione, però, l’autrice arricchisce di frasi intricate e dettagliate i suoi paragrafi. Più dettagli leggi, dice, più la tua fantasia sarà accesa e libera di creare. Altri suoi aspetti unici sono il suo dialetto di Hiroshima, che lascia trasparire per caratterizzare alcune delle comparse de La buca. Nonostante tuttora Oyamada sia si base a Hiroshima e non nel cuore pulsante dell’editoria nazionale (Tōkyō), il suo posizionamento è una ricchezza e un pretesto per concentrarsi sui contenuti anziché sulla scena letteraria. Forse anche per questo i suoi romanzi sono efficaci analisi taglienti della società tossica e iper-produttiva contemporanea.

Oyamada usa metafore e esperienze personali per parlare di sensazioni comuni, ma che sono particolarmente significative in questo momento storico. In Giappone la famiglia sta subendo un’evoluzione costante da decenni e sempre meno coppie seguono un percorso tradizionale, rompendo vecchi legami e creandone di nuovi. La protagonista de La buca si confronta con il contrasto tra i propri desideri e il ruolo che ci si aspetta che svolga. Il lavoro è, come nel resto del mondo, spesso precario e insoddisfacente, come descritto ne La fabbrica.

Entrambi i romanzi sono specchi di aspetti della società giapponese contemporanea e ne rimarranno la testimonianza per decenni.

Fonti

Articolo su Lithub

Articolo di Publishers weekly

Incontro della Japan Foundation New York

Articolo del Japan Times

Autore: <a href="https://hanabitemple.it/author/valentina-bianchi/" target="_self">Valentina Bianchi</a>

Autore: Valentina Bianchi

Ho avuto la fortuna di studiare nella bellissima Venezia, prima Cultura e Lingua del Giappone, poi Economia e Management delle Arti. Sono appassionata di arte giapponese e cerco sempre di scoprire nuovi artisti e di saperne di più su quelli che già conosco e amo. Vivo a Bruxelles, dove scrivo per siti web e riviste online e lavoro con organizzazioni locali e internazionali nel campo dell'arte contemporanea in connessione con la scienza e la sostenibilità.

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