Suzume di Makoto Shinkai, un viaggio nella memoria

da | 22 Giugno 2023 | anime, Articoli, recensione

L’ultimo film di Makoto Shinkai, Suzume, ad aprile è finalmente arrivato in Italia.
Quando a novembre dell’anno scorso è uscito in Giappone, mi aspettavo che di lì a poco l’avremmo potuto vedere anche nei nostri cinema. E invece ahimé, abbiamo dovuto attendere ben cinque mesi.

Nel frattempo è diventato un fenomeno social, grazie alla diffusione della colonna sonora. A chi, ad esempio, non è capitato di imbattersi nella canzone Suzume nell’ultimo periodo? Tutt’ora non riesco a togliermi dalla testa il suo dolce motivetto.

La curiosità riguardo questo film per me, quindi, era già tanta e la critica positiva nipponica non ha fatto altro che aumentare le mie aspettative. Perciò, quando finalmente sono riuscita ad assistere alla proiezione, me lo sono proprio goduto! Lo dico già adesso: per me sono state due ore davvero piacevoli, in cui l’alternarsi di momenti dinamici e poetici, tipici di Shinkai, è veicolato da un’animazione spettacolare. Al tempo stesso, però, per me questo film è stato come una ventata d’aria fresca, perchè è il prodotto di una regia più matura e intensa.

C’è molto da dire sull’opera e, dopo averne parlato con altri membri dello staff di Hanabi Temple, voglio raccontarvi le mie impressioni e gli aspetti che mi hanno colpito di più. Lo farò limitando il più possibile gli spoiler, così da non rovinare l’esperienza a chi volesse recuperarlo una volta che sarà disponibile in streaming (molto probabilmente sulla piattaforma Crunchyroll).

 

Suzume di Makoto Shinkai

Suzume (porzione della cover di Suzume no Tojimari di Makoto Shinkai – © Crunchyroll, Sony Pictures)

 

Suzume no Tojimari

Partiamo dalle basi: il titolo completo dell’opera è Suzume no Tojimari すずめの戸締まり (che significa più o meno “La chiusura di Suzume”). Suzume è dunque il nome della protagonista, una ragazza di 17 anni che vive in una tranquilla cittadina della Prefettura di Miyazaki, nel Giappone meridionale.

Un giorno incrocia per caso Sōta, affascinante giovane da cui si sente subito attratta, sebbene il loro incontro duri pochi secondi. Seguendo l’istinto nel tentativo di rintracciarlo, Suzume si ritrova in una situazione surreale. Al centro di un edificio in rovina, senza pareti a sostegno, si staglia una porta bianca da cui fuoriesce con violenza una sorta di materia densa e oscura, che fa vibrare la terra. Anche Sōta è lì, intento a svolgere un preciso compito: chiudere quella porta a tutti i costi. È questa la sua missione, incarico tramandato di generazione in generazione, ma qualcosa va storto. Ed è allora che Suzume si fa avanti, decidendo di unirsi alla causa del giovane e di intraprendere con lui un viaggio.

L’obiettivo è, ovviamente, chiudere tutte le porte sparpagliate in Giappone, scongiurando così il verificarsi di violenti terremoti.

 

Un viaggio intimo verso la salvezza di sé

Le vicende del film quindi coprono tutta la traversata che Suzume inizia dopo aver conosciuto Sōta. In questo momento, però, sono due i viaggi che iniziano: quello attraverso le Prefetture del Giappone e uno più intimo e personale, che appartiene solo alla protagonista.

All’inizio del film si scopre infatti che la ragazza porta un gran peso sul cuore, legato a un fatto di 12 anni prima. Aveva solo 4 anni quando la madre è morta durante il terribile terremoto del Tōhoku del 2011. Questo avvenimento doloroso accompagna da sempre la vita di Suzume, che ha subito un vero e proprio trauma. È attraverso questo viaggio che la ragazza, spinta all’interno di un contesto surreale e sconvolgente, ha la possibilità di sanare il proprio animo.

Trovo quindi che in Suzume Makoto Shinkai abbia scelto un focus molto diverso dal solito. Nei suoi precedenti film, l’autore ha sempre dato lo spazio principale alla storia d’amore, quella fra due persone, che spesso e volentieri contribuisce anche a salvare il Giappone da qualche catastrofe. Esempi perfetti sono Your Name e Weathering with you.

Questa volta invece è solamente Suzume ad avere i riflettori puntati addosso, è la sua storia, il suo viaggio nel passato. Certo, l’incontro con Sōta è stato determinante: è lui che per primo le dà lo stimolo per cominciare questa nuova avventura. Successivamente, però, è Suzume stessa ad essere determinante nella vita di Sōta, che senza di lei non riuscirebbe a continuare il proprio percorso. È come se i due personaggi si fossero passati il testimone.

Credo sia una scelta matura da parte di Shinkai, che questa volta rinuncia al suo classico modus operandi. E attenzione: io sono fan del suo modo di raccontare storie, ma ammetto che anche così mi ha colpita davvero in maniera positiva.

sota suzume makoto shinkai

Sōta (Screenshot del film Suzume no Tojimari di Makoto Shinkai – © Crunchyroll, Sony Pictures)

Suzume e la memoria storica di Makoto Shinkai

Come dicevo nel capitolo precedente, la madre di Suzume, Tsubame, è morta durante il terremoto del Tōhoku dell’11 marzo 2011. Il regista ci dà un riferimento ben chiaro, e non è l’unico.

Per la prima volta, infatti, Shinkai porta in scena degli episodi realmente accaduti in Giappone: seguendo il viaggio di Suzume e Sōta, la prima tappa è la prefettura di Ehime, dove nel 2018 delle piogge torrenziali hanno causato gravi alluvioni. La seconda è Kōbe, colpita il 17 gennaio del 1995 da un forte terremoto. E poi c’è Tōkyō, che riconduce al Grande Terremoto del Kantō del 1923, dove la capitale fu in buona parte rasa al suolo.

Il regista porta in scena la memoria storico-collettiva dei giapponesi, di cui i disastri sopra citati fanno parte. Seppur dolorosa, la storia di un popolo è importante e non dev’essere mai lasciata da parte; soprattutto è bene parlarne per le generazioni più giovani, quelle che non hanno vissuto certi avvenimenti e che sono arrivate molto tempo dopo di essi.

Trattare così apertamente queste tragedie, a mio parere, è una sfida che l’autore intraprende verso sé stesso. Come ha rivelato in un’intervista lo stesso Shinkai, il disastro del Tōhoku l’ha scosso profondamente e fa parte dei suoi ricordi. Quindi, personalmente, mi sembra quasi che egli voglia fronteggiare il suo dolore immedesimandosi nel personaggio di Suzume, e se è davvero così trovo sia una scelta coraggiosa.

 

Gli elementi spirituali

Makoto Shinkai non è nuovo alla spiritualità nei suoi film, soprattutto negli ultimi. In Your Name ne parla attraverso una cerimonia shintoista in grado di legare due anime oltre lo spazio e il tempo; in Weathering With You invece la spiritualità prende la forma delle preghiere che Hina, la giovane “portatrice di sereno”, rivolge al cielo. In questo senso Suzume non è da meno, e sono tanti gli elementi riconducibili a un “qualcosa” che va oltre la realtà.

Il mondo reale e l’altrove

Innanzitutto, è bene sottolineare che il film è ambientato tra due mondi: quello reale e l’altrove (che è al di là delle porte). La maggior parte del film si svolge nel mondo vero, su cui non ci sarebbe molto da dire essendo il nostro mondo, se non che Shinkai l’ha riprodotto in maniera molto realistica. Le città, i paesaggi naturali, i luoghi abbandonati sono praticamente uguali a quelli veri.

L’altrove è un posto buio da cui provengono i terremoti e altre catastrofi naturali, ma non solo. Nel film si specifica infatti, che questo stesso luogo è anche il regno dei morti (e per questo i vivi non possono entrare). Non so voi, ma io ho trovato l’associazione un po’ strana.

Ho pensato che forse Shinkai abbia collegato le due cose perché nell’altrove sono sopravvissuti i ricordi delle persone scomparse in quei luoghi. Ogni porta si trova infatti in una zona distrutta dalle calamità naturali, dove sono morte tante persone. Ecco perché coloro che hanno perso la vita in quelle occasioni potrebbero essersi rifugiati all’interno delle porte.

Il verme

Sì, nel film c’è una sorta di “verme”, che a mio parere è abbastanza inquietante. Si tratta di una sorta di gigantesco tentacolo rosso vermiglio, che fuoriesce dalle porte aperte, invisibile agli occhi delle persone comuni.

Una volta approdato nel mondo reale quest’essere si dirige verso il cielo, per poi stratificarsi in lunghi rami rossi che si muovono lentamente verso la terra. Una volta completato il suo movimento “ascendente”, la creatura comincia a cadere lentamente verso il basso schiantandosi al suolo: è questa l’origine dei terremoti.

In questa forma ho rivisto un fiore molto importante nella cultura giapponese: il Giglio Ragno Rosso, o higanbana 彼岸花. Il suo nome significa grossomodo “fiore dell’aldilà” e viene associato alla morte. Ecco perché lo si trova spesso nei pressi dei cimiteri e sulle tombe; è inoltre velenoso, e per questi due motivi si sconsiglia di regalarlo o di tenerlo nelle proprie abitazioni.

Le analogie tra il verme e il fiore, che si intravede anche nel film in una manciata di secondi, mi fanno pensare che il collegamento non sia casuale. La creatura, mutata in un enorme Giglio Ragno Rosso a testa in giù, preannuncia perfettamente il disastro che sta per avvenire.

higanbana giglio ragno rosso

Higanbana o giglio ragno rosso

 

Daijin e Sadaijin

È finalmente arrivato il momento di parlare di altri due personaggi fondamentali per la trama, che non avevo ancora menzionato per potergli dedicare un paragrafo tutto loro. In questa parte dovrò entrare un po’ di più nel dettaglio, quindi se non volete anticiparvi nulla, vi consiglio di saltarla.

Daijin e Sadaijin all’apparenza sono due gatti, ma in realtà sono molto di più.

Il primo con cui Suzume ha a che fare è Daijin, un micetto bianco che causa a lei e a Sōta molti problemi. Questo esserino accompagna i due personaggi principali per tutta la durata del viaggio, e le sue intenzioni restano piuttosto ambigue a causa dei suoi strani atteggiamenti, apparentemente capricciosi e infantili.

Sadaijin è l’altro gatto, maestoso e di colore nero. Oltre ad essere effettivamente più grosso di Daijin, sembra essere anche più grande d’età, quanto un adulto. È elegante e silenzioso, ma la sua presenza è impossibile da ignorare. Nel momento in cui compare per la prima volta, contribuisce infatti a creare una situazione disagevole tra le persone presenti che si lasciano andare alle emozioni più primordiali e dirette.

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Daijin (Screenshot del film Suzume no Tojimari di Makoto Shinkai – © Crunchyroll, Sony Pictures)

Come lo yin e lo yang

Il loro modo di fare mi ha fatto pensare allo yin e lo yang: due concetti della filosofia taoista cinese secondo cui ogni cosa ha il proprio opposto, indispensabile per completarla e mantenere l’armonia. Il Taoismo individua nello yin la parte della notte, l’oscurità e quindi l’energia meno attiva; nello yang invece quella più attiva, la parte più luminosa, il giorno.

Uno bianco e uno nero, i due gatti sembrano rappresentare alla perfezione questa dicotomia. Così diversi tra loro, eppure nonostante questo donano equilibrio alla vicenda che sta vivendo Suzume con i suoi compagni di avventura.

Molti spettatori continuano a chiedersi chi siano davvero questi due strani gatti, e lo stesso Shinkai ha detto di non avere una spiegazione. Dalla storia si deduce un collegamento ai kami, esseri divini che, secondo lo shintoismo, albergano in tutte le cose. La loro presenza è infatti strettamente collegata alla natura: come quest’ultima viene ignorata dagli esseri umani (le porte si trovano in luoghi abbandonati), anche Daijin e Sadaijin, nel loro ruolo, vengono lasciati al loro destino.

Ho amato e odiato allo stesso tempo il gattino Daijin, e ho provato terrore e insicurezza alla presenza di Sadaijin. In definitiva però mi sono piaciuti molto, e penso siano due presenze fondamentali in questo viaggio.

Maturità e voglia di crescere

Uscita dalla sala dopo aver visto Suzume, ho avuto l’impressione che Makoto Shinkai fosse in qualche modo cresciuto artisticamente. Ero felice perché avevo ritrovato il vecchio regista che mi aveva fatto emozionare con quelli che oggi sono considerati capisaldi dell’animazione giapponese, ma avevo anche visto in lui un nuovo modo di fare.

Questa maturità, per me, significa voglia di cambiare e di rinnovarsi.

Se di primo impatto mi era dispiaciuto che la storia d’amore fosse stata messa da parte in questo film, poco dopo ho capito che andava bene così. Il viaggio interiore di Suzume si prende tutto lo spazio che ha a disposizione, ma lo fa senza togliere niente al resto della storia, anzi. A mio parere la sua presenza è estremamente importante perché rappresenta le difficoltà di coloro che hanno sofferto e soffrono tutt’ora a causa di disgrazie su cui non si ha il controllo. Soprattutto, mostra il lato più combattivo dell’animo umano, la resilienza, la voglia di andare avanti.

E quando essere combattivi non basta, e diventa difficile trovare lo spirito giusto per andare avanti, non bisogna dimenticare che non si è soli. Lungo le tappe del grande viaggio di ognuno di noi ci saranno sempre persone che condividono le stesse esperienze di vita, pronte ad aiutarsi o anche solo ad ascoltare. Presenze indispensabili, proprio come per Suzume lo sono Sōta e gli altri personaggi.

È proprio nei legami e nel supporto reciproco che, secondo me, batte il cuore di questo bellissimo film.

Autore: <a href="https://hanabitemple.it/author/maria-tamburini/" target="_self">Maria Tamburini</a>

Autore: Maria Tamburini

Laureata in Lingue Occidentali, è da sempre appassionata di culture straniere, in particolare di quella giapponese. Amante di quella parte più pop del Giappone, che comprende manga e anime, è appassionata anche di arte e letteratura. Le piace molto scrivere, ecco perché, per completare le sue passioni, scrive news per Hanabi Temple.

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