Le chiamano comfort women, una denominazione che non comunica né le torture che hanno sopportato, né l’abbandono che hanno subito. Le reclutavano, convincevano o compravano dai loro villaggi in Vietnam, Indonesia, Hong Kong. Le costringevano a lavare le uniformi dei soldati, curare le loro ferite, obbedire ai loro ordini. Le chiamavano Kimiko, Akiko, Harumi: nomi che non erano i loro, ma che ricordavano ai soldati giapponesi le loro donne. Le hanno abbandonate, dimenticate, ignorate. Le hanno raccontate, analizzate, strumentalizzate in politica. Oggi l’arte può aiutarci a non dimenticare e a curare una ferita viva della storia giapponese.
“Durante il giorno cucivo vestiti e facevo il bucato dei soldati. Era facile. Ma la notte morivo. Stavo morendo. Mi sentivo come se fossi morta. Volevo scappare ma non sapevo come.” – Comfort woman di Miaoli, Taiwan.
I primi racconti delle comfort women
Circa 200mila donne furono costrette a prostituirsi con i soldati del Giappone imperialista tra il 1932 e il 1945. Le testimonianze delle comfort women hanno iniziato a raggiungere il grande pubblico negli anni ‘90 e la loro vicenda ad oggi è conosciuta in tutto il mondo. Anche in Italia sono note più con il termine inglese che come “donne di conforto”, la traduzione del termine originale ianfu 慰安婦. La coreana Kim Hak-sun è stata la prima a raccontare la sua esperienza pubblicamente nel 1991. E da quel momento molte altre donne coreane, taiwanesi, cinesi, filippine hanno preso coraggio e raccontato la vita di soprusi a cui sono state costrette. Diverse artiste contemporanee giapponesi hanno così sentito l’esigenza di partecipare alla narrazione, spesso spinte non solo dalla lotta comune contro il patriarcato giapponese, ma anche dal senso di responsabilità o addirittura di colpa. I loro stessi padri sono i carnefici. Il loro Paese il responsabile. Le loro madri complici. Le loro opere contribuiscono al dibattito su una questione che sfida le certezze del Giappone contemporaneo e lo costringe a confrontarsi col suo passato.
Esempio di Statue of Peace. L’uccellino sulla spalla della ragazza è un simbolo di liberazione.
Le Statues of Peace
Le Statues of Peace sono statue che rappresentano ragazze sedute su una sedia spartana, solitamente in abiti tradizionali coreani. I capelli sono tagliati in modo netto e brusco, come i loro rapporti con i genitori. I talloni sono alzati per simboleggiare la loro precarietà. L’uccellino sulla spalla significa libertà. Hanno lo sguardo determinato, fisso sul luogo simbolo della presenza giapponese all’estero. Chiedono silenziosamente il riconoscimento dello sfruttamento delle giovani donne coreane (e di altri Paesi asiatici) e della responsabilità del Giappone. Protestano contro la reticenza delle autorità a scusarsi e contribuire al risarcimento delle vittime, oggi donne anziane spesso in difficoltà economiche. Ne esistono più esemplari in tutto il mondo, create da vari artisti. Molte sono installate di fronte alle ambasciate giapponesi all’estero, una su tutte quella di Seul. Altre si trovano in luoghi privati: una intitolata Eternal Atonement, ad esempio, è visibile nel giardino domestico di un cittadino coreano.
Against forgetting
La Statue of Peace eretta al Glendale Central Park di Los Angeles, è stata anche protagonista di una performance commovente nel febbraio 2018. In Against forgetting le componenti del collettivo femminista Tomorrow Girls Troop (TGT) si sdraiano nel prato di fronte alla scultura. Si alzano poi una per volta, aiutandosi l’un l’altra, fino a essere tutte in piedi a tenersi per mano in un cerchio. Leggono quindi uno statement contro l’oblio delle sofferenze delle donne in guerra, e in fila si recano a rendere omaggio alla statua. Qui incontrano anche un’altra presenza: quella dell’artista Yoshiko Shimada 美子嶋田 (n. 1959). Seduta di fianco alla fanciulla, vestita come lei e dipinta di bronzo, proprio come una statua che abbia preso vita, abbraccia le ragazze di TGT. La sua performance, proposta per la prima volta nel nel 2012, si intitola Becoming a Statue of a Japanese Comfort Woman.
Becoming a Statue of a Japanese Comfort Woman, 2012, By Yoshiko Shimada – © CC BY-SA 3.0
Yoshiko Shimada e la memoria
L’interesse di Yoshiko Shimada per la questione delle comfort women è iniziata proprio dopo aver ascoltato la testimonianza di Kim Hak-sun nel 1991. L’ha anche ritratta nella stampa Tea and Sympathy (Ocha to dōjō お茶と同情,1995), sovrapponendo al suo ritratto da anziana fotografie storiche dell’occupazione giapponese. In un’installazione realizzata l’anno dopo, Black Boxes + Voice Recorder, diverse scatole nere, alcune chiuse da catene, altre col coperchio sollevato, contenevano le fotografie delle donne, sommerse nell’acqua. Nella stanza erano amplificate le registrazioni delle loro testimonianze di sfruttamento. Prima di queste opere, tuttavia, Shimada aveva già esplorato la questione delle donne durante la Seconda Guerra Mondiale e l’imperialismo giapponese. Nell’acquaforte del 1992 Shooting lessons aveva impiegato una fotografia d’epoca che ritraeva donne giapponesi vestite col tipico grembiule bianco, il kappōgi 割烹着, simbolo di patriottismo e fedeltà. Stanno imparando a sparare per respingere le rivolte della popolazione locale. Sono complici indottrinate e pronte al sacrificio.
Tea and Sympathy, incisione, 42.6 x 25.5 cm, 1995, © Yoshiko Shimada, immagine gentilmente concessa da Ota Fine Arts
Essere donna durante la guerra
Comfort Women / Women of Conformity del 1994 è una raccolta di fotografie delle comfort women da anziane e le loro testimonianze, alternate a dichiarazioni di femministe giapponesi del tempo. Tra queste ad esempio citazioni di Raichō Hiratsuka, che sosteneva la causa imperialista e che pensava che il compito della donna fosse partorire figli che potessero partecipare alla guerra e alla prosperità del Paese. Come vediamo, le femministe del tempo spesso potevano esprimersi solo perché allineate a un certo ideale e leali al regime. Opere come questa destabilizzano la percezione comune che le donne giapponesi fossero esclusivamente vittime durante la guerra. In Look at me look at you (1995) si rende evidente il contrasto tra l’esperienza delle donne del Paese invasore e di quello occupato. Un vestito da sposa di stile occidentale pende dal soffitto. Dall’altra parte di uno specchio magico è appeso un chima jeogori, abito tradizionale coreano, insanguinato. La donna giapponese è costretta nei ruoli tradizionali dettati dal Giappone del tempo e da essi manipolata. Per fedeltà al Paese non solo obbedisce alle aspettative di madre e moglie, ma partecipa più o meno direttamente allo sforzo bellico, alla violenza contro le donne coreane. Le loro vite sono diverse, ma sono ugualmente vessate.
Look at me / Look at you, 1995. Veduta dell’installazione a Ota Fine Arts, Tōkyō, 1995, © Yoshiko Shimada, immagine gentilmente concessa da Ota Fine Arts
Fare i conti col proprio passato
“Fondamentalmente mi piace la disciplina assoluta e tendo a essere influenzata dall’emozione più che dalla logica. Immagino che sarebbe stato abbastanza facile per me diventare fascista”. Shimada ammette che non è possibile per noi contemporanei escludere che ci saremmo schierati “dalla parte giusta” se ci fossimo ritrovati nella stessa situazione. Durante la sua permanenza in Germania e negli Stati Uniti, Shimada ha potuto partecipare al dibattito internazionale sulle questione imperialista. Una volta tornata in Giappone ha deciso di fare i conti col proprio passato. Nel progetto Bones in a Tansu: Family Secrets del 2004 ha esposto i segreti di famiglia di vari partecipanti, compresa la propria. Suo nonno aveva il compito di stanare e punire i coreani ritenuti responsabili degli incendi, conseguenti in realtà al terremoto del 1923. L’intera opera di Yoshiko Shimada è una ricerca incessante nel passato e nella nostra coscienza: siamo sicuri che noi saremmo stati migliori?
Bones in a Tansu: Family Secrets, 2004. Veduta della mostra “MOT annual 2005 Life actually”, Museum of Contemporary Art Tōkyō, 2005 © Yoshiko Shimada, immagine gentilmente concessa da Ota Fine Arts.
L’omaggio di Taeko Tomiyama alle comfort women
L’artista Taeko Tomiyama 妙子富山 (n. 1921) ha vissuto in prima persona il conflitto interiore di essere una donna giapponese negli anni dell’invasione. Ha trascorso l’infanzia in Manciuria, nell’occhio del ciclone del furore espansionista. È nota soprattutto per i suoi dipinti e collage dedicati alle comfort women e gremiti di riferimenti a religioni, riti e leggende delle tradizioni di tutto il mondo. Ricordi del mare (Umi no kioku 海の記憶,1984-85) è una collezione di opere in cui spiriti e divinità diventano metafore della società giapponese e della violenza imperialista. Nel caos del dipinto della notte del Festival di Galungan, che si celebra realmente a Bali, si può vedere una furiosa divinità femminile chiamata Rangda: l’artista la immagina in chiave femminista, come uno spirito che vendica le anime tormentate delle schiave sessuali. In un altro dipinto i ricordi che il mare serba sono teschi, bandiere, brandelli di uniformi. Resti di un passato che torna a interrogarci.
Sul Fondale dell’Oceano Pacifico (Minamitaiheiyō no kaitei de 南の海底で, dalla serie Ricordi del Mare) 1988. Opera © Tomiyama Taeko, Fotografia © Kobayashi Hiromichi.
Volpi e crisantemi
Anche la volpe, che in Giappone si crede capace di inganni e persuasioni magiche, diventa un’allegoria della propaganda e dell’indottrinamento. Nel dipinto Guerra e illusione (Sensō-Genshi 戦争・幻視, 1994) due volpi osservano delle eleganti fanciulle, dipinte nello stile delle stampe di bellezze femminili. Un’altra suona lo strumento tradizionale chiamato shamisen. Sono donne costrette alla sottomissione dal Giappone / volpe, richiamato anche da simboli come il crisantemo, la bandiera del disco solare e la figura ombrosa di un soldato. L’artista concepisce la sua infanzia come una vita tra due mondi, reale e fantastico, umano e bestiale, che si compenetrano nelle sue opere. Come le volpi che furbamente si camuffano e si infiltrano nella società degli uomini, gli invasori si insinuano nella colonia.
Guerra e illusione, 1995, Opera © Tomiyama Taeko, Fotografia © Kobayashi Hiromichi.
Le comfort women di oggi
Tomiyama crede che la questione delle donne costrette a prostituirsi non sia un problema lontano, che non ci riguarda più. Ancora oggi molte donne provenienti dal Sud-est asiatico sono vittime di una simile sorte. Let’s go to Japan (1991) rappresenta una montagna di donne trasportate su uno scooter, metafora colorata e apparentemente giocosa del traffico e sfruttamento di prostitute. Il viso del guidatore è coperto dal casco che indossa, mentre di tutte le passeggere spuntano solo i volti. Ognuna porta un elemento caratteristico del proprio Paese di origine, ad esempio un copricapo. Lavorando a Kabukichō (1991) e Ragazza tailandese che non è mai tornata a casa (Tai kaeranu shōjotachi タイ 帰らぬ少女たち) sono altri titoli che ci danno l’idea di quanto secondo Tomiyama la questione dello sfruttamento delle giovani donne nella società giapponese sia attuale, e non vada raccontata come un caso isolato nella storia. Kabukichō è infatti un famoso distretto a luci rosse di Tōkyō e teatro anche di sfruttamento della prostituzione. Forse sono proprio i casi contemporanei a cui l’artista assiste oggi a risvegliare il ricordo di quelli che la circondavano in Manciuria da bambina.
Dettaglio di Il Festival of Galungan (Garungan no matsuri no yoru ガルンガンの祭りの夜, dalla serie Ricordi del Mare), 1988, Opera © Tomiyama Taeko, Fotografia © Kobayashi Hiromichi.
Censura e dissenso
Tornando alle Statues of Peace, vale la pena ricordare infine lo scandalo che ha coinvolto una di queste nel 2019. Gli organizzatori della triennale di Aichi hanno deciso di sospendere l’evento per timore che gli estremisti di destra vandalizzassero la statua realizzata da Kim Seo-kyung e Kim Eun-sung. Ironicamente, il tema della triennale era proprio la censura. Anche l’artista Toshihiko Hanai ha dovuto rinunciare a esporre in una mostra organizzata nella città di Ise. Dopo aver discusso col sindaco, il comitato infatti ha finito per escludere il suo poster dal titolo Chi sono io? (Watashi wa dare desu ka 私は誰ですか), colpevole di contenere la rappresentazione di una statua di una comfort woman cinese.
Nel Giappone odierno è difficile esporre contenuti che si riferiscano alle comfort women. La censura non aiuta certo il dibattito pubblico e il riconoscimento della responsabilità dello stato nella vicenda. Nonostante questo, possiamo sperare che la creatività e il desiderio di raccontare degli artisti non si spenga presto.
Fonti
Brushing with Authority: The Life and Art of Tomiyama Taeko
Display of ‘comfort women’ artwork canceled in Japan
Yoshiko Shimada: Silence, Secrets and Sex in the Gallery
Note alle immagini
Alcuni dei titoli delle opere sono stati tradotti in italiano da Hanabi Temple.
Le immagini delle opere di Yoshiko Shimada sono pubblicate per gentile concessione di Ota Fine Arts.
Vorremmo ringraziare le Professoresse Laura Hein e Rebecca Jenisson per il prezioso aiuto. Le immagini delle opere di Taeko Tomiyama sono pubblicate per gentile concessione dell’artista. Esse non possono essere riprodotte senza consenso. Per ogni informazione o richiesta riguardo al loro utilizzo, contattare Taeko Tomiyama alla mail tomiyamataeko1921@gmail.com.
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