Japan Sinks 2020: la serie specchio del Giappone

da | 4 Maggio 2021 | Articoli, recensione

Immaginate di vivere in un Paese soggetto a continue catastrofi naturali: l’idea che, un giorno, questi possa affondare perché non è più in grado di sopportarle non suona poi così assurda. Una visione per noi del tutto utopica è invece per altri maledettamente realistica. È questo il tema centrale della serie anime Japan Sinks: 2020, uscita lo scorso luglio sulla piattaforma di streaming Netflix. Come suggerisce il titolo, la storia non è proprio una sorpresa: il Giappone sprofonda. Tuttavia, definirla una semplice serie di stampo apocalittico non le renderebbe giustizia.

Oggi vi presento un viaggio attraverso tutte le sfaccettature più curiose e controverse della serie. Voglio svelare quei particolari un po’ più nascosti che si celano dietro a un’ipotetica tragedia di enorme portata che, inevitabilmente, mette in discussione ogni certezza.

 

Gli effetti del terremoto in Japan Sinks

La protagonista davanti alla distruzione causata dai terremoti. Screenshot dalla serie Japan Sinks: 2020 © Masaaki Yuasa e Pyeon-Gang Ho / Science SARU

 

Japan Sinks: 2020, distopico realismo

Una serie di terremoti e disastri improvvisi mette in ginocchio l’intero Giappone e stravolge la vita della famiglia Mutō, nucleo centrale della trama. Protagonista è la giovane promessa olimpica Ayumu che, insieme al padre, alla madre e al fratellino minore Gō, inizia una fuga costante alla ricerca della salvezza.  Il loro percorso costellato da personaggi più o meno bizzarri come Haruki, un timido nerd; KITE, uno youtuber di origine estone; un simpatico turista inglese di nome Daniel; il signor Kunio, anziano giapponese un po’ burbero ma dal cuore d’oro.

Dietro alla serie di Masaaki Yuasa e Pyeon-Gang Ho si cela una perla da milioni di copie vendute: il romanzo dello scrittore giapponese Sakyō Komatsu. Ambientato negli anni ‘70, Nihon Chinbutsu (“Il Giappone affonda”) ha ispirato due film e Japan Sinks: 2020 ne è una trasposizione in chiave moderna.

Attraverso alcune modifiche infatti l’opera è stata attualizzata: ci sono per esempio gli smartphone, che non esistevano ancora nel 1973, e una forte componente multiculturale. La tematica principale però è rimasta fedele all’originale, rendendo quasi inquietante l’uscita della serie in un periodo in cui tutto il mondo cercava di prendere le distanze da una pandemia inaspettata.

L’emergenza che ci siamo trovati ad affrontare è ben lontana da terremoti devastanti ed eruzioni vulcaniche. Eppure, offre spunti di riflessione su come la paura possa modificare radicalmente i nostri comportamenti. E ci mette di fronte alla consapevolezza che qualcosa di indomabile sta per cambiare la realtà che conoscevamo e a cui tenevamo.

Japan Sinks: 2020 permette di dare un’occhiata a quello che “potrebbe succedere”, rendendolo spaventosamente attendibile. E lo fa presentando una varietà di tematiche e valori spesso in netto contrasto tra loro, che emergono, fanno discutere e si scontrano, alternandosi per comporre pezzo dopo pezzo l’identità del Paese del Sol Levante.

 

La consapevolezza della fine nell’immaginario giapponese

In una delle scene iniziali, un terremoto costringe il piccolo Gō a ripararsi sotto a un tavolo – il tutto senza smettere di giocare ai videogiochi. Questa reazione, che noi italiani potremmo definire di apparente indifferenza, non è altro che il riflesso di una triste realtà a cui i giapponesi sono ormai fin troppo abituati.

A causa della sua conformazione geografica, il Giappone è purtroppo soggetto a diversi eventi naturali di tipo catastrofico, come terremoti, tsunami e tifoni. In Japan Sinks: 2020, l’evento cardine e tutte le conseguenze che ne derivano sono causati proprio dallo spostamento della zolla filippina ed eurasiatica. Lo scontro tra le due zolle principali provoca terremoti ed eruzioni vulcaniche di proporzioni colossali, mettendo in pericolo l’intero Paese.

La Tokyo Tower crollata

La Tokyo Tower crolla. Screenshot dalla serie Japan Sinks: 2020 © Masaaki Yuasa e Pyeon-Gang Ho / Science SARU

Curiosamente, una leggenda vuole che i terremoti siano provocati dai movimenti di un enorme e spaventoso pesce gatto di nome Namazu, uno yōkai  situato sotto l’arcipelago giapponese. Simbolo di satira e talismano al tempo stesso, la sua figura dimostra come già nell’antichità i giapponesi cercassero di spiegare questo terribile evento naturale con un fenomeno “soprannaturale”.

I numerosi avvenimenti catastrofici vissuti nei secoli hanno portato il popolo giapponese a convivere con una costante consapevolezza della fine. Bisognerebbe inoltre tenere presente che l’autore della storia originale, Sakyō Komatsu, nacque nel 1931: faceva quindi parte della generazione che ha vissuto sia la guerra che le sue disastrose conseguenze.

 

Il cinema come valvola di sfogo

La storia del Giappone non è stata segnata solo dalle tragedie naturali. Ci sono stati anche terribili eventi causati dall’uomo che hanno aperto insanabili ferite, ancora oggi vive nella memoria di chi è rimasto. Basti pensare ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Oppure, in epoca contemporanea, al traumatico attentato alla metropolitana di Tōkyō del 1995 per mano della setta religiosa Aum Shinrikyō, che provocò diversi morti e più di 6000 feriti. O ancora al disastro nucleare nella provincia di Fukushima del recente 2011.

La cinematografia, attraverso il cosiddetto genere distopico, si fa portavoce delle più grandi paure e tensioni derivanti da un senso di fine generale, offrendo una valvola di sfogo con la costruzione di scenari post-apocalittici.

Se nell’immaginario comune l’apocalisse rappresenta la conclusione di ogni cosa, nel pensiero buddhista altro non è che una fase transitoria, detta mappō (era del decadimento dei valori). A essa seguirà sempre un ciclo di rinnovamento, in cui torneranno la legge e la morale necessarie alla creazione di un Paese completamente nuovo. Ed è proprio ciò che accade nella serie: la fine appare come preludio alla rinascita.

Come però accade quando un’epoca giunge al termine, soprattutto se in maniera tragica, inizialmente si rimane aggrappati al mondo prima del disastro, al passato. Solo in un secondo momento, superata la fase di incertezza, ci si sente pronti ad accogliere ciò che il cambiamento porta con sé e ritrovare le convinzioni andate in frantumi, in vista di un nuovo futuro. La serie si propone quindi come elegia a un Giappone che non esiste più: rimangono solo i ricordi, che giocano un ruolo chiave.

 

Rimettere insieme i pezzi

“La linea tra la vita e la morte è sottile”, come cita KITE, e la storia è irreparabilmente attraversata da continui lutti. Elaborare il lutto durante una catastrofe simile diventa difficile: il tempo è prezioso e va usato per salvarsi ed evitare di assistere ad altre perdite. Il dovere (giri) di andare avanti viene così anteposto ai sentimenti (ninjō), dicotomia molto cara ai giapponesi, che non esternano le proprie emozioni in pubblico preferendo riservatezza nei confronti della collettività. E se in una situazione normale, quindi, ci si prende tempo per riflettere, per elaborare e per ritornare più forti di prima, questo non è possibile durante una catastrofe.

L’importanza di abbracciare le proprie cicatrici in Giappone si trasforma in un’arte che, in Japan Sink: 2020, riflette il tema della perdita. Si tratta del kintsugi, o kintsukuroi, nato probabilmente alla fine del XV secolo. Questa tecnica insegna che la rottura di un oggetto non è la sua fine, ma piuttosto l’inizio di qualcosa di nuovo e ancora più prezioso. Infatti, utilizzando materiali pregiati come oro, argento e lacca, i vari pezzi vengono riassemblati per creare una vera e propria opera d’arte.

Sede della setta e tecnica kintsugi

Sede centrale della setta. Screenshot dalla serie Japan Sinks: 2020 © Masaaki Yuasa e Pyeon-Gang Ho / Science SARU

Il kintsugi è allo stesso tempo simbolo di ottimismo e di guarigione. La comunità che rappresenterà per i protagonisti un luogo di speranza in mezzo alla devastazione, Shan City, ne fa uso. Alla base del suo culto c’è infatti la pratica di ridare nuova vita agli oggetti. E la struttura stessa della comunità si rispecchia in uno dei primi manufatti nella storia dell’arte giapponese: una maestosa statua dalle sembianze feline, le cui parti vengono tenute insieme da decorazioni color oro.

La metafora di rinascita va ad arricchire il messaggio principale di tutta la vicenda. Ovvero, che nonostante le innumerevoli tragedie, il Giappone potrà sempre riemergere più forte, donando nuova luce a ciò che ha perso, con la speranza di diventare, un giorno, migliore. Anche Ayumu fa un percorso analogo di crescita e, alla fine, arriverà a essere una persona “nuova” e realizzata.

 

Aspirando a un Giappone più unito

Uno dei temi che la serie cerca di “affondare” per la rinascita di un nuovo Giappone è quello della xenofobia. L’avversione, cioè, nei confronti dello straniero che viene percepito come una minaccia, come un nemico che viene quindi respinto e allontanato.

I protagonisti la vivono sulla propria pelle: Mari, madre di Ayumu e Gō, è di origine filippina. E ciò ostacolerà l’avanzare del gruppo, perché “i mezzosangue non possono mettere piede sul sacro suolo giapponese”. In un episodio infatti, una nave approda per offrire aiuto ma, dopo aver scoperto della loro semi-cittadinanza, l’equipaggio si rifiuta di farli salire a bordo. Il motivo è che, non essendo autentici giapponesi, sono indegni di essere salvati.

La coesistenza tra varie culture fa emergere un ulteriore tema, quello del multiculturalismo. Questo viene sottolineato anche dalla presenza di personaggi come KITE, di origine estone, e Daniel, un turista dall’Inghilterra: entrambi aiuteranno la famiglia protagonista e verranno descritti sotto una luce positiva. Ad essi si contrappone l’anziano giapponese Kunio che, diffidente, avverte il gruppo di “non fidarsi degli stranieri”. Inoltre ricorda ripetutamente a Gō, amante della lingua inglese, che sono in Giappone e che deve quindi parlare esclusivamente in giapponese. La figura del signor Kunio incarna proprio quella fetta di giapponesi che, sicuri della superiorità della loro etnia, si oppongono in modo totalmente ostile a chiunque sia estraneo alla loro cultura.

Personaddi della serie

Alcuni dei personaggi della serie. Screenshot dalla serie Japan Sinks: 2020 © Masaaki Yuasa e Pyeon-Gang Ho / Science SARU

 

Il distacco per trovare la propria identità

La necessità di affermare l’unicità del popolo giapponese nacque in passato come conseguenza del distacco dalla Cina. Il Giappone, che a lungo l’ha ammirata, cercò dapprima di appropriarsi di tutti i suoi aspetti più affascinanti e interessanti, riadattandoli però in chiave autoctona. E poi ne prese le distanze, in nome di una più totale autonomia.

In un secondo momento, anche i primi approcci con le potenze europee e americane furono altrettanto conflittuali. Di nuovo il Giappone cercò di attingere da queste civiltà, per poi proclamare l’importanza della propria tradizione culturale. E sentendosi secondo a nessuno, dopo vari traumi e cambiamenti, il Paese cercò di giustificare le sue mire espansionistiche in Asia così come crimini verso le minoranze etniche. Basti ricordare i soprusi verso gli Ainu, gli Okinawani e i Burakumin, compiuti usando l’arma del favore divino e adottando proprio il concetto di “razza pura”.

La rigidità mentale del Giappone va così a scontrarsi con una modernità che vede invece il Paese proiettarsi sempre di più verso un futuro multietnico. Ciò però non danneggia la sua cultura tradizionale, ma piuttosto l’arricchisce.  E, all’interno della storia, alcuni personaggi avranno infatti modo di rivedere le loro posizioni, finendo per accettare proprio coloro che inizialmente non tolleravano.

 

Torii nell'acqua, unicità del Giappone

Un torii nell’acqua, simbolo dell’unicità Giapponese. Screenshot dalla serie Japan Sinks: 2020 © Masaaki Yuasa e Pyeon-Gang Ho / Science SARU

 

“Shan City non manda via nessuno. Qui c’è posto per tutti.”

In seguito a continue scosse sismiche, a un certo punto il gruppo si vedrà costretto a proseguire il viaggio verso l’entroterra e approderà in quello che appare come un luogo sicuro e accogliente: Shan City. Un barlume di speranza e un senso di normalità avvolgono la famiglia Mutō e la compagnia, che vengono accolti a braccia aperte dalla setta del luogo. La comunità è capeggiata da una figura mistica, la Madre, una sorta di medium in grado di comunicare con l’altro mondo.

L’immagine del gruppo di Shan City si avvicina molto all’idea di nuova comunità che contraddistingue le cosiddette Nuove Religioni, o Shinshūkyō. Questi movimenti nascono per dare voce agli emarginati in tempi di crisi, soprattutto in seguito al controllo del governo su tutte le istituzioni religiose. Emergono grazie ai cambiamenti dovuti a eventi tragici e si fondano sul concetto di ciclicità caro al Giappone. Il vecchio ha la necessità di riaffermarsi, trasformandosi ma adottando, allo stesso tempo, il nuovo.

Basandosi su questo paradosso, la setta di Shan City ha delle caratteristiche in comune con le Nuove Religioni. Innanzitutto, esse si affidano alla figura di un carismatico fondatore, spesso donna, che assume un ruolo sciamanico e agisce da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nella serie, la comunità è infatti unita dalla Madre, che può comunicare con gli spiriti attingendo al potere del figlio Daichi, intermediario tramite il quale la donna può esercitare le sue attività.

 

Una setta che offre salvezza

Un altro tratto caratteristico di queste religioni è la capacità di diffondere un senso di coesione tra coloro che decidono di farne parte. È importante unire gli adepti e farli sentire parte di qualcosa, renderli capaci di collaborare con altri per ottenere uno stesso obiettivo, spesso salvifico. Anche ai seguaci della setta di Shan City è così offerta la possibilità di lavorare collaborando per il bene della comunità. Inoltre, hanno l’opportunità di dormire in strutture con ogni comfort, di mangiare insieme buon cibo e di praticare yoga. Non solo conforti spirituali dunque: ricevono anche beni materiali.

I fedeli si affidano così completamente al leader, elevato a figura divina da venerare, e alle sue capacità mistiche. All’interno di Shan City, solo alcuni membri hanno l’onore di incontrare la Madre e di ricevere il messaggio dei loro cari ormai scomparsi. Questo desta dei primi sospetti nei protagonisti, scettici sulla veridicità tali pratiche e alla fine, tramite alcuni stratagemmi, riusciranno ad avere una risposta.

Tuttavia c’è una differenza molto importante con le Nuove Religioni. Contrariamente ad altre sette, considerate pericolose per i loro atti criminali (come il già citato Aum Shinrikyō), nella serie la comunità di Shan City non ha nessun fine terroristico. Il suo unico scopo è, anzi, quello di offrire benessere, speranza e salvezza in un mondo che sta crollando.

 

Leader della setta di Shan City

Leader della setta di Shan City. Screenshot dalla serie Japan Sinks: 2020 © Masaaki Yuasa e Pyeon-Gang Ho / Science SARU

 

Giappone a colpi di rap

Japan Sinks: 2020 si propone in definitiva di essere lo specchio di tutti quei valori che più contraddistinguono il Giappone. I suoi personaggi sono infatti portavoce dei vantaggi e degli svantaggi dell’appartenere alla cultura giapponese. E nel penultimo episodio dei 10 della serie, KITE sfida gli altri a esprimersi al riguardo in una battaglia rap, dato che ormai non c’è più nulla da perdere.

Così facendo, chi partecipa a questa sfida mette in risalto aspetti diversi e in contrapposizione tra loro. Gō ad esempio accusa i giapponesi di essere chiusi, asociali, di fare le cose in branco e di discriminare tutti quelli che sono diversi da loro. Sottolinea così la sua volontà di poter vedere un Giappone più aperto. Haruki controbatte apprezzando invece la gentilezza, la generosità, la serietà e l’efficienza che rende il loro Paese il più affidabile al mondo. Ayumu, nel suo turno, conclude dicendo che siamo tutti imperfetti ed è quindi inutile continuare a paragonare il Giappone agli altri Paesi, così come giudicare solamente in base alla nazionalità.

 

Nonostante la serie sia permeata di momenti bui e tristi, quella di Japan Sinks: 2020 è una storia di ottimismo, di rinascita e di speranza. Personalmente, mi ha incuriosita e mi ha tenuta attaccata allo schermo grazie ai continui colpi di scena. Ho trovato interessante cogliere, durante i vari episodi, gli svariati indizi su tematiche care al Giappone. Ho avuto così modo di rifletterci in modo più approfondito per presentarvele oggi, sperando possano dare spunti illuminanti anche a voi. Sono proprio tutte le sfaccettature che ho elencato a caratterizzare il magnifico e controverso Paese del Sol Levante. Malgrado tutte le catastrofi passate e future, ha trovato e troverà sempre la forza di riemergere e di ricominciare.

 

Fonti:

 

Revisione a cura di DebbieD90

Autore: <a href="https://hanabitemple.it/author/valentina-padovan/" target="_self">Valentina (Shiinya)</a>

Autore: Valentina (Shiinya)

Valentina, 27 anni, studentessa di lingue orientali. Sono completamente affascinata dal Giappone, dalle culture straniere e da tutto ciò che è diverso dall'ordinario. Nel tempo libero mangio libri, divoro film e scrivo articoli per Hanabi Temple con l'intento di far conoscere il paese del Sol Levante in tutte le sue più curiose sfaccettature.

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